venerdì 14 giugno 2013

Quell'ultima notte di seminario

Era venerdì 17 giugno 2011. Quell'anno, il nostro quinto ed ultimo anno di seminario, con mia grossa sorpresa e con un po' di disappunto, la nostra permanenza venne prolungata più del solito. Gli altri anni, infatti, già entro la seconda settimana di giugno "si smontavano le tende".
Si usa, nel Seminario Interregionale di Posillipo, festeggiare l'ultimo giorno vivendo due momenti molto significativi: il primo, celebrativo, vede tutta la comunità di seminario partecipare alla celebrazione eucaristica presideduta dal Rettore. Il secondo, conviviale, in un clima di agape fraterna, ma anche di divertimento, vissuto in terrazza, davanti ad uno straordinario e suggestivo panorama del golfo di Napoli.
Tutto è bello: i seminaristi fanno "memoria" dell'anno appena trascorso, tirano un po' le somme, cercano di considerare gli aspetti su cui ancora maturare e lanciano le basi per progettare l'anno successivo.
Tutto bello, ma velato di tristezza, per i seminaristi dell'ultimo anno, chiamati a vivere l'ultima notte in seminario, invitati, di lì a qualche ora, a lasciare quella che è stata un po' la loro casa per cinque lunghi anni; un luogo vissuto ben 5 giorni su 7, notte e giorno.
Quel venerdì 17 giugno 2011 eravamo noi quelli dell'ultimo anno. Non li conoscete, ma meritano di essere almeno nominati: Mario, Francesco, Luciano, Enrico, Davide, Gianluca, Francesco, Michele, Gianfranco, Antonio, Umberto, Rosario, Vincenzo e il sottoscritto. Quell'anno eravamo noi a dover lasciare il seminario, a dover preparare le valigie definitivamente. Nessuno sapeva cosa il compagno stesse provando in cuor suo, ma vi era una comunanza di espressioni, di voci, di sguardi che diceva: "domani si parte, si va via, chissà se ci rivedremo ancora...".
Confesso subito che non ho mai avuto desiderio di rimanere in seminario oltre il dovuto, ma, vuoi o non vuoi, si creano rapporti di amicizia con dei ragazzi che dividono con te il pane, la scuola, le mète, le cadute per ben cinque anni e ben tante tante tante ore. In effetti, si trascorreva più tempo con i compagni di seminario che con la propria famiglia, che si vedeva solo il sabato e la domenica.
Alla Messa decidemmo di sederci tutti vicini, primi quattro banchi della fila di destra. Poi partecipammo al buffet su in terrazza, dove ci venne consegnato un libro-ricordo regalatoci dai formatori. Terminato il buffet ritornammo nella sala comune della nostra comunità. Per vari motivi, non andammo a dormire subito. Forse, nell'intimo di ciascuno, c'era il desiderio di voler prolungare, possibilmente, quell'ultimo tempo vissuto insieme. L'ora tarda, tuttavia, ci scoraggiò dall'indugiare e ognuno rientrò in camera.
Anch'io andai in camera, ma non chiusi occhio facilmente. L'ultima notte di seminario, l'ultima notte in quella camera, in quel letto, tra quelle mura... Naturalmente fui "vittima" dei ricordi: passai in rassegna con la memoria quei cinque anni, dal primo all'ultimo: il primo ingresso, la prima Messa in comunità il primo anno, i volti di compagni che poi hanno compreso che il Signore li chiamava ad altri progetti di vita, i formatori, i superiori, i docenti.... Tutto ti ritorna in mente...e nel cuore.
Forse mi addormentai senza neppure accorgermene. La mattina la sveglia suonò al solito orario: 7.00. Mi alzai di colpo, completamente dimentico che quella era l'ultima alba di seminario. Me ne ricordai dopo un paio di minuto, convinto che fosse un mattino come gli altri.
Alle 7.30 pregammo ancora tutti insieme le lodi e fu l'ultimo momento celebrativo che facemmo. Poi colazione, ancora saluti ai compagni degli altri anni, alle cuoche, alle signore e poi gli ultimi saluti tra noi.
Con alcuni ci saremmo rivisti per la proclamazione del voto di baccalaureato dopo qualche giorno e così fu. Poi le nostre vite hanno preso strade diverse, anche se sostanzialmente uguali. Ognuno è stato chiamato a realizzare quanto il Signore voleva nel proprio territorio, nelle molteplici diocesi da cui provenivamo. Sicuri di poter proclamare con maggiore forza e convinzione un'espressione che il Rettore Liberti amava dire (presa in prestito da S.Giuseppina Bakhita): "per tutto ciò che è stato, grazie. Per tutto ciò che sarà, sì".

Questa notte sarà l'ultima notte per i seminaristi di Posillipo, che hanno festeggiato come noi due anni fa. A loro il mio più cordiale augurio, perchè possano scoprire sempre meglio cosa il Signore chiede a ciascuno di essi.
In particolare, auguri ai ragazzi dell'ultimo anno che stanotte chiudono un momento fondamentale della loro vita e della loro "sequela Christi" e si preparano ad aprirne un altro non meno importante e significativo nelle diocesi di appartenenza.

D. Filippo
















giovedì 13 giugno 2013

PIETA' POPOLARE: TANTI DOCUMENTI, POCA DECISIONE PASTORALE

E' di appena un mese fa l'ultimo documento che la Conferenza Episcopale Campana (CEC) ha pubblicato sul fenomeno della pietà popolare (processioni, pellegrinaggi, devozioni, ecc.) presente sul nostro territorio. In particolare, i vescovi hanno tentato, attraverso questo ennesimo scritto, di spronare tutti i vari operatori pastorali, in primis i parroci, a prendere sul serio questa realtà e a pensare per essa un progetto pastorale di evangelizzazione.
La pietà popolare non va disprezzata; essa è ormai parte del nostro popolo, della nostra cultura e rappresenta, per molte persone, un tentativo di "contattare" il Trascendente. Il problema si pone quando le feste popolari "non rendono credibile la fede da parte dei lontani", perchè svuotate del loro contenuto cristiano; quando si presentano del tutto "prive di ogni valore di autentica testimonianza cristiana".
Il chiaro riferimento è alle persone che vivono la loro fede soltanto in quesi momenti, quando credono di rendere culto a Dio, alla Madonna o ai Santi esclusivamente in questi getti che poco hanno di autenticamente religioso. Tra queste, purtroppo, non mancano coloro che "vivono notoriamente in situazioni gravemente lesive della giustizia e dei doveri familiari", ma che poi appaiono "zelantissimi nel partecipare a manifestazioni di pietà popolare: processioni, offerte votive, feste patronali, etc.".
Quale rimedio a tutto questo? Nessuna nuova indicazione. I suggerimenti sono sempre gli stessi, anzi, più che suggerimenti sono diventate vere e proprie norme. Il documento le presenta dettagliatamente.
Il vero problema, a mio avviso, riguarda la volontà che i parroci e gli operatori pastorali (animatori, catechisti, partecipanti del Consiglio Pastorale parrocchiale, etc.) hanno di promuovere un serio progetto pastorale che abbia lo scopo i evangelizzare questo fenomeno, di renderlo più autenticamente cristiano e, dunque, più credibile. Affermano i vescovi della Campania: "perchè le feste religiose siano autentiche celebrazioni di fede incentrate sul mistero di Cristo [...] riteniamo indifferibile un'azione pastorale che si proponga [...] di formare, con una seria e puntuale catechesi, una sana opinione pubblica sul significato cristiano di questi riti collettivi".

Cosa avverrà? Il mio timore è che non accada proprio nulla. Il documento di vescovi, come i precedenti (a Nola l'ultimo emanato risale al 2007) rischia di essere ricnhiuso nel "cassetto dei ricordi" quando non addirittura frettolosamente cestinato.
Conosciamo le scusanti; c'è chi dice: "è facile scrivere documenti, ma guardiamo la realtà. Chi è disposto a "scontrarsi" con i battenti di Madonna dell'Arco, con i comitati dei Gigli, con le varie paranze organizzatrici? Come si fa a non fare questue durante le processioni? Come si fa a proibire i fuochi artificiali? E se anche si organizzasse una catechesi di "evangelizzazione", chi verrebbe?".
Ci sono altri, anche parroci, che, invece, guardano quasi con disprezzo i fenomeni della pietà popolare, ritenendoli "roba di popolo", riti di gente semplice, analfabeta, immeritevole di attenzione. Questa loro visione è resa esplicita dal famoso "Vabè..., falli fare..", non avendone alcuna considerazione positiva.
Eppure la pietà popolare non è affatto un fenomeno che va estinguendosi o che non ci appartiene. Come si spiega che migliaia di persone partecipano a certi riti, a certi pellegrinaggi, a certe feste e poi non fanno parte delle nostre comunità parrocchiali? Non sono oggetto di attenzione della cura pastorale? Eppure è un'opportunità incredibile dover poter evangelizzare.
Dovremmo cambiare totalmente registro. Non bastano i documenti, serve sensibilità, cura, attenzione pastorale, per non perdere altro tempo e altre occasioni.
















domenica 9 giugno 2013

IL CUORE COMPASSIONEVOLE DI DIO

A due giorni dalla solennità del Sacro Cuore di Gesù, per una felice coincidenza, la X domenica del tempo ordinario ci propone il racconto del miracolo del giovane di Nain. Questo brano è una "perla" tutta lucana; infatti solo l'evangelista Luca ci riporta questo miracolo.
Gesù si reca a Nain, un villaggio di piccole dimensioni e il suo cammino è interrotto da un rito funebre: un giovinetto, morto, viene portato al luogo della sepoltura. Dietro la bara la madre, vedova, attorniata da partenti e vicini ("una grande folla" sottolinea Luca) in preda alla disperazione più totale.
A questa povera donna la vita non ha risparmiato alcuno strazio; è una donna vedova, un duplice motivo per essere relegata ai margini della società al tempo di Gesù. Le era restata un'ultima speranza, un ultimo appiglio: il figlio, l'unico che aveva. Probabilmente questo figlio avrebbe potuto rappresentare per lei un riscatto economico e anche sociale. Invece le viene rubato anche il figlio. Potremmo dire che non ha più alcun motivo per vivere; ella "muore" con la morte del figlio.
Gesù passa e vede questa donna e proprio non ce la fa a restare indifferente, perchè è Dio e Dio, per sua natura, è amore, è comunione, è carità infinita. Allora si avvicina e, "preso da grande compassione" rassicura la donna: "Non piangere!". Interessante: l'evangelista dice che Gesù si mostra compassionevole e, in greco, utilizza il verbo che indica l'affetto viscerale che prova una mamma per il proprio figlio. Per un istante Gesù e la vedova provano lo stesso sentimento: la donna soffre per la morte del figlio, Gesù soffre per il dolore di questa donna.
Così Gesù compie il gesto: tocca la bara, disinteressandosi delle leggi sulla purità che ogni pio ebreo osservava (chi toccava un morto veniva poi considerato impuro) e resuscita il figlio, ordinandogli di alzarsi "Ragazzi, dico a te, alzati!", il verbo della resurrezione. Questo si alzò e Gesù lo restituì a sua madre.
Questi gesti ci dicono essenzialmente due cose:
  1. Gesù è il Dio della vita. A differenza di Elia (Prima Lettura) che può fungere solo da mediatore perchè il figlio della vedova di Zarepta riprendesse vita e prega Dio perchè ciò accada, Gesù non ha bisogno di pregare Dio Padre, è lui che dà la vita, è lui che ridona esistenza a quel giovinetto, perchè, come dirà nell'ultima cena, ha il potere di dare la vita e di riprenderla di nuovo.
  2. Gesù rigenera relazioni. Il male e la morte interrompono, distruggono le relazioni tra noi; la morte aveva sottratto il figlio alla madre. Gesù, nel restituire il giovane a sua madre, riposiziona la relazione tra i due.
Cosa può suggerirci la Parola di questa domenica? Gli spunti sono infiniti. Forse Gesù vuol dire a noi quella fantastica espressione di rassicurazione: non piangere; a noi che stiamo vivendo una situazione "di morte" Gesù si fa vicino, si accorge di noi, ci dimostra che Dio ha un cuore.
Forse ci suggerirci di alzarci, come fece con quel giovane. Ci incoraggia a riprendere vita, a non restare "caduti", ma a rialzarci, a ripartire. Alzati, risorgi, non restartene chiuso nella tua situazione di "morte".
Forse vuol insegnarci a essere uomini e donne di relazione, capaci di costruire relazioni, ponti di comunicazione con chi ci è vicino.

Buona domenica


















sabato 8 giugno 2013

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